“Una giornata di Ivan Denisovič”: glaciali riflessioni da un gulag sovietico

di Francesco Pio Ceroni ed Elena Piccirilli


Una giornata di Ivan Denisovič”, romanzo breve scritto dall’autore russo e premio Nobel Aleksandr Isaevič Solženicyn e pubblicato in Italia da Garzanti Editore per la prima volta nel marzo 1963.

(Milano), racconta della vita precaria nei Gulag sovietici dal punto di vista di un prigioniero, detenuto per motivi politici, Ivan Denisovič Šuchov, che osserva e commenta gli avvenimenti di una delle sue giornate nel campo.

L’autore sceglie di parlare di una fredda giornata invernale dell’anno 1951, quando al protagonista mancano ancora due anni per terminare di scontare la pena di dieci anni di lavori forzati in seguito a una condanna per tradimento. Solženicyn stesso era stato prigioniero nei Gulag per otto anni, tra il 1945 e il 1953, a seguito dei quali, dopo la liberazione dalla reclusione, fece conoscere al mondo la realtà atroce dei lager sovietici attraverso le sue opere, tra cui “Arcipelago Gulag”, suo capolavoro. I Gulag erano stati attivi sin dal primo dopoguerra e avevano raggiunto poi il picco di reclusioni e di morti durante la Seconda Guerra Mondiale, periodo in cui, oltre alle preesistenti pessime condizioni di vita dei prigionieri, i campi di lavoro divennero strumento politico della dittatura stalinista per la repressione degli oppositori del regime.


Aleksandr Solženicyn nel 1974
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Pur descrivendo l’andamento di una sola giornata all’interno del Gulag, le tematiche che affiorano sono numerose ed interessanti. Fin da subito gli avvenimenti raccontati nel romanzo fanno trasparire come, nonostante la brutalità con la quale vengono trattati i prigionieri, alcuni di essi conservino ancora la propria dignità. Šuchov, il protagonista, dentro di sé sa che un giorno sarà libero e grazie ciò mantiene intatta la sua dimensione umana, che sembra invece soppressa in personaggi inserite nello stesso contesto, come il rigido e crudele tenente delle guardie Volkovoj e il codardo e approfittatore Fetjukòv, detto “sciacallo”, un prigioniero della “104”. Infatti azioni come il togliersi il cappello dalla testa prima dei pasti o “chiudere un occhio” sulle mancanze dei compagni da parte di Ivan Denisovič mettono in luce il fatto che la macchina mortale del Gulag non ha privato alcuni prigionieri di tutta la loro umanità.

 All’ora del coprifuoco, sdraiato sulla sua branda, Ivan Denisovic fa un bilancio della giornata trascorsa e quasi felice per come era terminata si addormenta pensando a quante altre ancora dovevano passare prima che quella vita potesse finire. Da qui scaturisce un tema politico molto sentito dall’autore: all’interno del regime stalinista essere imprigionati non comportava necessariamente morire, ma sottomettersi e rinunciare alla propria dignità. Nel romanzo Šuchov dà un valore infinito a quei pochi minuti che ogni prigioniero ha per sé, capaci di farlo pensare, ragionare ed esprimere la propria opinione anche in silenzio, di rendere quindi un uomo “uomo”. Solženicyn con il suo libro si schiera ovviamente contro il governo sovietico ma metaforicamente la sua denuncia può essere estesa a tutte le forme di dittatura, ed il messaggio che egli vuole far passare è il seguente: finché rimarrà anche un solo uomo capace di riflettere – si noti come tutta la narrazione sia costantemente puntellata di commenti e riflessioni, tanto che a volte può risultare impegnativo distinguere la voce narrante dai pensieri del protagonista – lo Stato totalitario non vincerà mai la sua battaglia contro l’umanità.

Solženicyn utilizza uno stile semplice, calmo, ricco di termini tecnici ed espressioni proprie dell’ambiente del Gulag e del lavoro rende la forma del racconto estremamente vivida ed originale nonostante non si allontani mai dalla normalità quotidiana. Inoltre la narrazione è volutamente priva di qualsiasi effetto patetico e drammatico, e questa scelta  è calzante con l’intento dell’autore, ovvero quello di descrivere senza dare giudizi e quindi lasciando spazio ai punti di vista dei diversi personaggi. Fin dalle prime pagine non viene fornita alcuna informazione su dove o quando è ambientata la storia; la sveglia al campo, tramite un martello che picchia su una rotaia, è improvvisa proprio come lo è l’inizio del libro, mentre non si può dire lo stesso del ritmo che accompagna le azioni dei detenuti dopo la sveglia fino all’adunata, volutamente lento e simile agli stessi prigionieri, ancora impastati di sonno.

L’essere solidali e fratelli nonostante le differenze e le difficoltà è un tema altrettanto importante, e nel libro la figura di Tjurin lo esprime pienamente. Egli è, come Šuchov, un prigioniero politico che aveva conosciuto per la prima volta il protagonista in un lager comune. Inizialmente ha un carattere freddo ed è difficile capire se faccia parte dei “buoni” o se sia un ostacolo per il protagonista. Durante la pausa lavorativa, però, racconta a tutti i suoi compagni la sua storia e ciò li tocca emotivamente, rendendolo non solo un capo dotato di grande carisma ma donandogli anche un alone protettivo, quasi da fratello maggiore. La temperatura gioca inoltre un ruolo importante nel romanzo, in tutte le sue sfumature. Dalla soglia mai superata dei 41o gradi sottozero che avrebbe salvato i prigionieri dal lavoro giornaliero, ai 37° di Šuchov, temperatura troppo bassa perché gli venga concessa l’esenzione dal lavoro per malattia; anche lo stile del racconto sembra imitare il più possibile il gelo del Gulag, una costante nella vita dei personaggi. Dall’altra parte, in una vita del genere trascorsa costantemente al freddo più estremo, il calore diventa un vero e proprio tesoro da custodire.

Il romanzo di Solženicyn, e con lui tutta la letteratura russa, ha fra le sue caratteristiche la polifonia, in tutte le sue sfaccettature. Pur essendoci un protagonista, le opinioni che esprime possono essere importanti, certo, perfino rispecchiare quelle dell’autore stesso, ma non sono mai le uniche. Fin dal carattere accondiscendente del Tartaro, passando per le storie di Tjurin e Kil’gas, alla visione del mondo quasi surreale e fanatica di Alyosha, Una Giornata ci illustra come l’esistenza di un pensiero principale non precluda la presenza di punti di vista diversi, a volte discordi con le opinioni dell’autore, ma che danno voce a tutti i personaggi e grazie alla loro diversità danno unità all’intero racconto.

 Sia per quanto riguarda la forma del romanzo, sia per quanto riguarda i suoi contenuti, trovare spunti per un tipo di critica “negativa” è arduo, se non impossibile. Gli eventi, come fin da subito ci illustra il titolo, sono inseriti nel corso di una sola giornata e pertanto non si tratta di criticare l’autore per la sua brevità, quanto lodarlo per la sua ineguagliabile capacità di esprimere la crudeltà e la mostruosità dei Gulag in un centinaio di pagine. Un altro punto di forza del libro è sicuramente l’inaspettato coinvolgimento del lettore fin dalla prima pagina: la sveglia, fredda e fastidiosa, scuote i prigionieri dal loro sonno e allo stesso modo invita il lettore all’attenzione in una maniera non meno brusca. L’andamento della giornata è seguito dal lettore e dal protagonista, che diventano gli unici personaggi dotati di quello spirito critico e di quella libertà umana che, nel primo, l’autore invita a non perdere e che il secondo mantiene vivi. Da notare infine come l’unico momento delle ventiquattro ore non riportato nel racconto sia la notte, il momento in cui tutti i prigionieri dormono. Dopo una giornata particolarmente fortunata, di sicuro ci si può immaginare che Suchov sia stato l’uomo meno tormentato dagli incubi in tutto il campo.

E se non fosse stato così? Forse quel “succo di carne, autentico” che scendeva giù nel suo stomaco gli riportò per un istante alla mente vecchi ricordi: la famiglia, l’infanzia, la sua casa… Tutti pensieri troppo astratti in un luogo senza uscita come il Gulag, ma pur sempre pensieri. La notte è un lunghissimo periodo di tempo che ognuno può impiegare liberamente purché faccia silenzio e non si alzi dalla sua branda. Dopo sforzi disumani è naturale che si cerchi il sonno, ma spesso non è così semplice. La fame, i deliri della febbre, la pura e semplice nostalgia, la paura di non sopravvivere, la paura di non poter vivere mai più. Come scrive Aleksandr Tvardoski, direttore negli anni ’60 della rivista “Novyi Mir”, “Una Giornata di Ivan Denisovič può essere annoverata tra quelle opere letterarie che una volta lette suscitano in noi il vivo desiderio di vedere altri e sempre più numerosi lettori condividere il nostro sentimento di gratitudine nei confronti dell’autore”.

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