La Fotografia

La Fotografia

Chiarasole Tarsi

La dimora dei ricordi

È un sorriso, è un respiro che piano si va ad affievolire, è un tocco candido, è un volto senza nome  Sa parlare senza far rumore, sa riprodurre con  delicatezza un ricordo, sa imprimere su carta tutto ciò che di più umano c’è in questo mondo senza urlare parlando all’orecchio di chi sa ascoltare.  Più espressiva della pittura, ci parla in un linguaggio moderno sussurrando storie vere di una vita vissuta, ricordi perduti, immortalati attraverso una macchina: la fotografia.

Siamo appesi come le istantanee appese ad un filo ad asciugare in una camera oscura, istantanee rubate al tempo di cui si perderà traccia.

la fotografia ha immortalato la sincerità delle emozioni, gli usi, i costumi di un tempo, i ricordi di una famiglia.

Sono sempre stata la persona che sulle fotografie costruiva ricordi. che non faceva altro che contemplarle lasciando che la nostalgia si impossessasse di me. Sulle foto costruivo  quel mondo in cui spesso mi rifugiavo, la fotografia crea questo: un angolo isolato lontano dal tempo che stiamo  vivendo un rifugio sicuro perché quella storia che la foto ritrae l’abbiamo già vissuta, sappiamo già come va a finire è la sicurezza di quel sorriso o di quel gesto ...Quel volto nella storia può ancora tornare a vivere, quel respiro a rimbombare nel petto  e quelle emozioni a bruciare, calde sulla pelle nel ricordo che la menzogna del tempo non  può cancellare.

È un momento fugace che aspetta di essere colto con la luce, le ombre la spontaneità, la bellezza che viene catturata in una camera oscura, e rilasciata su carte come immagine sensibile ai raggi solari. Come ogni arte rende immortali, eternamente giovane, un bambino che rivive lo stesso momento con lo stesso stupore  osservandolo con mille occhi diversi.


Un semplice alone sulla carta stropicciata, un foglio sbiadito,  la veduta di un paesaggio colto nella sua più sincera bellezza, uno stagno incorniciato da una finestra dalla quale Joseph Nicéphore Niépce osservava il mondo che tra uno scatto e l’altro ritraeva.  Il primo fotografo della storia, una camera oscura che aveva immortalato questo panorama, una fotografia lasciata asciugare al sole per 8 ore cosparsa di bitume.  


Una Magia Oscura

Una magia oscura per tanti, un sortilegio che ruba l’anima, un pezzo di noi viene catturato dalla carta su cui è impressa la nostra immagine.  Gli Indiani d’America credevano che la fotografia fosse uno strumento di cui si avvalevano i “visi pallidi”per appropriarsi del soggetto raffigurato, credevano allontanasse, scatto dopo scatto, lo spirito dal corpo. Lo specchio cattura e  riflette l’immagine la fotografia mostra dopo lungo tempo ancora i volti dei soggetti rappresentati.  Attraverso la macchina fotografica si osserva il mondo con gli occhi dello spettatore, riproducendo ciò che lui stesso vede, alterando la realtà trasformandola in una dimensione intima e soggettiva. Un’immagine senza tempo, che non invecchierà, vive in una dimensione nel quale gli attimi sono secoli  mentre la nostra vita va avanti come un fiume in piena. La fotografia svela noi stessi a noi stessi, restituendoci un’immagine nella quale non ci riconosciamo a pieno e soventemente ruba una parte di noi, la fotografia era questo per gli Indiani d’America: uno strumento infernale.


La fotografia dopo la morte

In epoca Vittoriana la fotografia acquisì un’accezione macabra. Le  fotografie rappresentarono le persone  post mortem, per mantenere vivo il ricordo del defunto. Inizialmente si includeva solo il busto o il capo. Successivamente si iniziarono a rappresentare i defunti sul divano con gli occhi chiusi e la testa appoggiata ad un cuscino.

Come se stessero dormendo, un sonno eterno, abbandonato alla dolcezza dei sogni.

 




 
Dal 1860 il ricordo diventava sempre più vivo, i defunti rappresentati ad occhi aperti con le guance colorate di rosa, intenti a svolgere attività della vita quotidiana circondati da giocattoli o animali domestici.




Dietro quei volti si celava l’angoscia, la pietà, il dolore, lo strazio di madri e padri che consegnavano alla fotografia l’ultimo ricordo di quella vita appena svanita.


In altri casi  i defunti erano rappresentati in piedi intenti a svolgere compiti abituali, dietro di loro  mani pietose li sostenevano nel tentativo  di rendere la scena il più naturale possibile, come una di quelle bugie che si dicono a fin di bene per rendere meno amara la triste realtà.

 


 

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