LA SCIENZA DEL MALE
Di Francesca De Ingeniis
LA SCIENZA DEL MALE
Spirava un vento freddo e dalle fessure delle finestre spifferi taglienti
penetravano nelle ossa. Il legno scricchiolava sotto i miei passi
insicuri.
Mi avvicinai all’ uscio, schiusi la porta e raggiunsi i miei colleghi nel
vialetto dove “accoglievamo” i nuovi arrivati, baciati dalla cattiva sorte di
essere nati nel corpo sbagliato.
Intravidi il nostro superiore, stava tracciando una linea a 150 cm da
terra.
Il treno arrivò sbuffando.
Le porte dei vagoni si aprirono e in lontananza potei intravedere le facce
spettrali dei passeggeri. Una voce metallica ordinò di disporsi in fila
indiana.
La fila si mosse lentamente. I piedi trascinati e l’ondeggiare delle teste davano al corteo un aspetto grottesco e inquietante. Venni presa da una
tremenda sensazione di angoscia. Quasi il respiro mi venne meno. Il corteo
raggiunse la piccola biforcazione che era alla fine della stradicciola. Lì l’Angelo
della Morte aspettava. Era alto, sembrava potente. Tutto in lui emanava
oppressione e terrore. Le mani erano lunghe ed affilate e si muovevano
agilmente. I gesti erano sicuri e programmati. Gli occhi di ghiaccio,
inespressivi, si posavano su tutte le cavie. Dall’alto della sua statura,
scrutava le coppie di gemelli bambini, protagonisti tragici dei suoi futuri
esperimenti.
I vecchi non utili ai
lavori venivano condotti, insieme a chi non raggiungesse il metro e mezzo di
altezza, verso un grande capannone.
Il miracolo della morte.
In contrapposizione a quello della vita.
Ad un tratto, non si sa per quale preciso motivo, esisti.
La tua presenza è reale, non più frutto di un’ immaginazione incapace di
superare i limiti terreni.
Nasci, cresci, cambi, pensano che tu sia diventato qualcun altro, e invece
sei rimasto sempre lo stesso.
Vivi interpretando il ruolo della tua vita inconsciamente, e non appena te
ne rendi conto, cominci a chiederti se dolori e gioie vissuti facessero parte
del copione o della realtà.
Non c’ è una risposta precisa, non lo sapremo mai, come non sapremo mai chi
sia il pazzo.
Tutto ciò viene distrutto nelle docce.
Ho visto con i miei stessi occhi gente che andava incontro alla morte
inconsapevolmente.
Eppure, in un certo senso, ne erano coscienti.
La mia domanda è sempre
stata come l’Angelo della Morte facesse a rimanere impassibile. Egli era o non
era consapevole di essere la negazione vivente dei principi della medicina?
Palese violazione del Giuramento d’ Ippocrate.
Ogni volta che cercavo di leggere nei suoi occhi, mi perdevo nell’ abisso,
sprofondando nella sua malvagità.
I suoi lineamenti non apparivano burberi, eppure percepivi subito la sua
malvagità.
Le labbra erano sottili, le stesse che usava per sussurrarmi di iniettare
fenolo nel cuore di qualche bambino che non era stato utile per le sue
ricerche.
Così impugnavo la siringa, consapevole che se non l’ avessi fatto sarei
stata punita.
Ed ogni volta, era uno strazio essere vittima dello sguardo supplichevole
di quella povera creatura che implorava pietà.
Allora tiravo un sospiro, e con un nodo in gola, cercavo invano di
consolare quella creatura, dicendole che la sua meta sarebbe stata un posto
migliore di questa realtà di esistenza.
L’Angelo della Morte era un soggetto paragonabile al bene e al male.
Ammiravo la pacatezza che usava per parlare con i nuovi pazienti, come
passava la mano dalle lunghe dita sulla guancia di qualche piccolo per
offrirgli un illusorio conforto.
Leggero come una piuma carezzava i capelli di qualche bella bimba.
Come era delicato nei
gesti.
E come invece si adirava, quando i suoi collaboratori sbagliavano qualcosa,
come mutava completamente, tanto da far sembrare che due persone diverse si
fossero impossessate del suo corpo.
L’Angelo della Morte, così lo chiamavano e così sarebbe passato alla storia
Mengele.
Rammento ancora quella volta in cui Karl era stato lento al punto che
Mengele gli aveva strappato bruscamente dalle mani la siringa e aveva
effettuato personalmente la puntura di fenolo dritta al cuore.
I suoi occhi erano sbarrati dalla collera, la mandibola contratta ed era
semplice poter scorgere le vene del collo, sembrava stessero per
scoppiare.
Però ricordo che, nei suoi momenti di serenità, era una persona anche
abbastanza piacevole.
Qualche rara volta, abbiamo interagito, mi raccontò del conseguimento delle
lauree in medicina ed in antropologia e dei suoi approfondimenti riguardanti l’
eugenetica.
Ed era proprio in questi attimi che si guadagnava un appellativo opposto al
precedente, Angelo Bianco.
La mattina, quando aprivamo il laboratorio per dare inizio agli
esperimenti, faceva sterilizzare tutta l’ aula, disinfettando lettini e
sedie.
Lavava le mani ogni due
minuti, durante e al termine di ciascuna visita.
E poi, oltre ad essere ossessionato dall’ igiene, la sua cura per i
dettagli era maniacale.
Bastava solo che una penna non fosse allineata sulla sua scrivania, che
diventava pazzo.
Credo che assistere a questi suoi comportamenti abbia contribuito a
perfezionare la mia pignoleria.
Ovviamente non fino ai suoi livelli, ma penso che fosse il perfezionismo
per ogni dettaglio ad accomunarci in quel modo.
Quando si trattava di scrivere le relazioni finali su qualche caso
eclatante, sceglieva me, perché sapeva che avrei descritto ogni particolare
della visita.
Avrei curato ogni minuzia, prestando attenzione alla calligrafia perfetta.
Egli sapeva che la terminologia sarebbe stata quella appropriata e la scadenza
di consegna rispettata con largo anticipo.
Un tipo di studio che ad entrambi piaceva era quello riguardante una
malattia su cromosomi non sessuali, il nanismo acondroplasico, oppure anomalie
presenti sin dalla nascita.
Ciò che però mi impressionava notevolmente era in ogni caso l’
insensibilità con cui conduceva i suoi studi.
Una volta dovetti essere
testimone di uno dei suoi tanti esperimenti, riguardanti i gemelli.
Per dare vita a dei gemelli siamesi, cucì due fratelli monozigoti insieme
unendoli tramite la schiena.
Inutile dire che le mani si infettarono, le vene si richiusero ed andarono
in cancrena, provocando la morte di quei due poveri innocenti.
L’ espressione di fallimento sul suo volto corrucciato era
incredibile.
Non proferì parola per i dieci minuti successivi.
Rimase solamente a guardare i due cadaveri.
Gli occhi erano socchiusi a mezzaluna per concentrarsi e capire dove avesse
sbagliato.
La fronte corrugata in un sentimento di sconforto.
Il suo viso appariva come un caleidoscopio di espressioni, tanti erano i
sentimenti che immaginavo provasse.
Sempre che li provasse.
Un giorno c’ era il sole, faceva caldo.
I raggi illuminavano la
bianca e profonda sala degli esperimenti, così solevo chiamarla.
Qualche nuvola era sparsa nel cielo ed il vento rincorreva le foglie, o
forse erano le foglie a rincorrere il vento, questo particolare lo devo ancora
stabilire poiché percepivo un’atmosfera surreale.
Seguii Mengele insieme agli altri collaboratori per recarmi al solito
ingresso del settore Blle del campo di sterminio di Birkenau, per scegliere le
nuove cavie dei futuri esperimenti.
Non dimenticherò mai con quale impassibilità ed occhi algidi abbia
pronunciato quella frase: “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo
avanti”.
Allora nella mia testa hanno preso posto decine di pensieri
contrapposti.
Ciò che ancora oggi penso, e mi chiedo, è come lui sia riuscito ad
ingannare quelle povere creature.
Lo definisco il culmine della sua mancanza di sensibilità.
La sua totale assenza di scrupoli si manifesta analizzando come possa aver
illuso quei bambini.
Il rapporto materno era stato interrotto nei primi minuti successivi all’
arrivo del treno ad Auschwitz, e sono testimone di come l’ espressione dei
bambini si sia illuminata alla sola parola “mamma” pronunciata durante la frase
urlata da Josef.
I loro occhi gridavano,
urlavano felicità.
Ma quelli del dottore sogghignavano, pregustando già la carneficina che
avrebbe compiuto.
Dopo tanti giorni le avrebbero riviste.
Finalmente.
O forse era solo un inganno?
Sembrava passata una vita.
E forse lo era.
Ma loro non lo scopriranno mai, perché non sarebbero andati a vedere la
mamma.
Anzi, non l’ avrebbero rivista mai più.
E tuttora, solo a pensare a quei visi colmi di speranza, mi viene da
piangere.
Era il 1945.
C’era parecchio subbuglio già da alcuni giorni ormai nel campo di
Auschwitz, ma non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Mengele aveva dato al
nostro gruppo di medici, quelli che lo affiancavano nel corso degli
esperimenti, il compito di uccidere tutti i bambini usati come cavie sopravvissute.
Avevo redatto una lista con nomi e cognomi dei bambini, come mi aveva
ordinato, per verificare se ci fosse qualcuno ancora in vita al termine dell’
operazione di soppressione.
Continuavo a non capire il motivo per cui dovessimo farlo.
I bambini non sapevano nulla, li condussi io in una specie di stanzino per
farli spogliare.
Tutto ciò che sarebbe rimasto dopo erano solo i vestiti sporchi e
malconci.
Il mio collega li ingannò nuovamente, dicendo loro che avrebbero dovuto
farsi la doccia perché di lì a poco si sarebbero incontrati con i
genitori.
Erano piccoli, non capivano.
Erano delle fragili prede con l’ animo esposto ai graffi.
Piccole bestie troppo sensibili.
Mentre mi dirigevo verso una porta per chiuderla, uno di loro mi si attaccò
alla gamba.
Mi chinai, e probabilmente il profumo di rose dei miei capelli arrivò
dritto alle sue narici, perché ci affogò il viso contro.
Lo abbracciai, ed il mio calore corporeo fu ceduto al suo corpicino esile e
congelato.
Feci solo in tempo ad udire “li appendiamo come quadri”, che ebbi la
sensazione di cadere nel vuoto.
Una luce soffusa mi
illuminò il volto.
Mi svegliai di soprassalto, e sentii come una vampata il profumo di
ammorbidente delle mie lenzuola.
Mi alzai dal letto, feci colazione, mi vestii e uscii di casa.
L’ ambiente scolastico, seppur nuovo, mi era oramai familiare.
Credo fosse ottobre del
2021.
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