ORFEO & EURIDICE 

Di Francesca De Ingeniis

"Orfeo, non dimenticarmi".

Poi ad un certo punto chiusi gli occhi, e non vidi più nulla. Solo tenebre".


Il dio Plutone rifletteva, con il pugno sotto il mento. 

Proserpina si volse a guardarlo, le trecce le ondeggiavano sulle spalle. 

"Che sia condotta qui Euridice, ed avvicinati anche tu, cantore. Ho apprezzato il tuo canto, così come la fiducia che nutri nel potere dell'amore. Chiederò alle Parche di tessere nuovamente il destino di Euridice perché le concedano più tempo. Però te la restituisco ad una condizione: ella seguirà i tuoi passi ma tu non potrai girarti a guardarla finché non avrete lasciato il mio regno."


L'immensa moltitudine di anime giunta alla Valle del Lete tagliava il mio sentiero. 

Nubi di polvere venivano alzate al passaggio di ogni spirito che vagava per la grotta, rallentando il nostro passo. 

"Ci sei, cara Euridice?", "Subito dietro di te, mio sposo".

Era bella anche così. 

L'ultima sua immagine impressa nella mia mente era stata quella del suo corpo ormai privo di armonia. Il suo collo aveva perso vigore ed i suoi capelli giacevano come fili d'erba marci. L'avevo supplicata di non lasciarmi, ma il suo viso era oramai cereo e gli occhi non mostravano vita.

Giù nell'Ade, gli spettri non si scontravano, e nemmeno fra di loro si toccavano. 

In quanto privi di corporeità si trapassavano l'un l'altro, creando correnti d'aria che travolgevano le anime più leggere. 

Così procedeva la mia amata Euridice, scompigliata come un vortice di nebbia. 

Avrei tanto voluto tenerla per mano. Ma non potevo nemmeno girarmi a guardarla. 

Il vapore esalato dal fiume la stordiva. 

Le grida di Tizio, Issione, Sisifo e di molti altri condannati, superato il sentiero del Tartaro, intimidirono l'anima della mia ninfa, che, troppo lieve, divenne ancor più vulnerabile al turbine infuocato del fiume Flegetonte.

Come una fiaccola nel bel mezzo di un uragano, la sua ombra rossiccia sbatteva freneticamente, inafferrabile, ardente.

Io correvo per evitare di bruciarmi, e lei arrancava al mio seguito.

La sentii sussultare all'udire il cane Cerbero abbaiare, lui che quando aveva varcato la soglia per entrare nel Mondo sotterraneo, le aveva mostrato le sue zanne affilate, cosa avrebbe fatto nel vederla uscire? 

"Ho tanta paura, amore mio", "Stai vicina a me e non temere, abbiamo il benestare di Plutone. Ci rimane poca strada da fare", le dissi, per tentare di confortarla. 

Lasciando stupefatte le migliaia anime dirette all' Ade, che chiamavano disperata il nocchiero per passare il fetido Acheronte, noi facemmo il percorso inverso, giungendo alla sponda fangosa.

Ci restava da superare solo il vestibolo all'entrata, dove la Discordia rideva e la Vecchiaia, pallida e smorta, faceva prendere aria alle sue spoglie.

Dopo, l'avrei potuta finalmente riabbracciare. 

Dovevamo passare in fretta sull'altra riva, altrimenti saremmo stati intrappolati da quelle disgrazie o altre simili.

Ambedue tremavamo per l'ansia e il desiderio impellente di lasciare al più presto quel luogo mortifero.

Superammo così l'ultimo ostacolo, avviandoci sul cammino che portava alla luce. 

Sul fondo del tetro cunicolo, un bagliore disegnava nitidamente il profilo dell'ingresso della caverna.

Poco più avanti, compariva il principio del sentiero pietroso e, sopra, le ombre proiettate dai rami dei tassi.

Dimenticando tutto, corsi verso la luce, pazzo di gioia, varcai l'uscita e mi voltai per abbracciare finalmente la mia sposa.

"Ce l'abbiamo fatta!", Ma Euridice si trovava dentro la grotta. 

Come i gorghi che s'aprono improvvisamente nel mare e trascinano le navi sott'acqua, un vortice di vento aspirò l'anima della mia Euridice e, con un rumore spaventoso, la risucchiò di nuovo nell'Ade.

Come ultima immagine, vidi le sue braccia tese verso di me e sentii l'eco di un gemito, prima che la mia amata sparisse come un riflesso sull'acqua del fiume in subbuglio. 

La chiamavo, correndole dietro invano, devastato dal dolore. 

A corto di fiato, giunsi all'oscuro Acheronte e, mentre nell' udirmi le ombre si commossero, il nocchiero Caronte rimase impassibile. 

Sordo alle mie suppliche, seguitava imperturbabile a trasportare anime sulla sua barca color ruggine, affondando il remo nelle acque pestilenziali con le sue braccia ossute. 

Avevo fallito. 

L'avevo persa per sempre.



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